Manifesto per l’insegnamento della filosofia

9 11 2009


La filosofia non è un tempio, ma un cantiere
Georges Canguilhem

L’insegnamento della filosofia al Liceo è in difficoltà. Certo, non è mai stato esteso a tanti allievi come adesso e la sua legittimità non è mai stata così ben radicata nella società, dove la domanda di filosofia, per quanto ambigua essa sia, non è mai stata così forte. Ma la sua vitalità, la sua capacità di rinnovamento sono in crisi e i sintomi di un declino della filosofia a scuola si moltiplicano.

I sintomi della crisi

Gli iscritti alle terminali letterarie diminuiscono di anno in anno. Questo fenomeno mette direttamente in questione l’identità di un insegnamento che si definisce, nel suo contenuto, nelle sue modalità e nel suo spirito, a partire da questa sezione (un tempo chiamata “di filosofia”) e che ha concepito la sua presenza negli altri indirizzi come versioni a orario ridotto di questo modello unico. E’ inoltre il segno di una perdita di prestigio della disciplina e del suo potere di attrazione: oggi si va alla terminale letteraria per studiare le lingue o le discipline artistiche, più raramente per la filosofia, benché il suo orario e il suo coefficiente vi siano ancora preponderanti.

Un gran numero di allievi – e non soltanto negli indirizzi tecnologici – non giungono mai a trarre un reale profitto dall’insegnamento di filosofia così come è attualmente proposto. La formula è senza dubbio eccessiva, ma le constatazioni che chiunque che può fare al momento del bac non sono affatto incoraggianti: numerosi compiti non mostrano traccia di un anno di filosofia, e malgrado l’evidente buona volontà la maggior parte non ne contiene che frammenti confusi; solo una minoranza dei compiti testimonia dell’acquisizione dei rudimenti di una cultura e di un modo di procedere filosofico. Le difficoltà di valutazione, così frequentemente richiamate (e alle quali la professione non si è mai data veramente i mezzi per farvi fronte, salvo procedere in un modo volontaristico che elude il problema) non sono che un sintomo: ciò che si registra in definitiva alla prova del bac – e che si constata al di là del bac in tutta la formazione successiva alla terminale – è l’incapacità dell’insegnamento di filosofia di formare oggi in maniera soddisfacente una gran parte degli allievi che sono loro affidati.

Di fronte all’espressione di nuove domande e di nuovi bisogni, si registrano nella professione reazioni di freddezza e di nervosismo.

  • Dopo undici anni, tutti i tentativi di riforma dei programmi sono falliti; e anche se quello in corso avrà successo, vi sono state discussioni così accanite e così tanti rifiuti che la sua effettiva messa in opera, tale da restare coerente con il suo spirito, è tutt’altro che assicurata. Più in generale, la professione si mostra incapace di assicurare una evoluzione regolare della disciplina che tenga conto tanto dello stato dei dibattiti filosofici contemporanei quanto dei cambiamenti nella scuola.
  • Dopo qualche mese di filosofia in terminale, gli allievi si lamentano unanimemente di avere un solo anno per assimilare il percorso e la cultura filosofica necessari e sono dispiaciuti di non aver cominciato dalla classe prima. Ma dobbiamo ben riconoscere che l’idea di insegnare la filosofia su due anni o tre (come è il caso della maggior parte dei paesi d’Europa in cui esiste un insegnamento, obbligatorio o facoltativo, di filosofia) suscita ancora oggi nella professione più reticenze che adesioni.
  • L’insegnamento nelle sezioni tecnologiche resta un argomento tabù: un cadavere nell’armadio. Le difficoltà sono palesi. Ma mai ci si è presa la briga di riunire i professori che vi insegnano per valutare i loro successi e i loro fallimenti, e trarne le conseguenze. Se molti professori si appassionano a questo insegnamento, e talvolta hanno successo, molti attendono impazientemente il trasferimento che li libererà da quello che sentono come un fardello; e più d’uno dice ormai a mezza voce che è la filosofia stessa a non essere forse al suo posto in queste sezioni.
  • In questo contesto, è sorprendente che l’ipotesi di un insegnamento della filosofia nei licei professionali desti inquietudine piuttosto che entusiasmo? Se si farà, ci saranno sicuramente enormi problemi. Ma ci si può chiedere se, per effetto di queste paure, la professione non preferirà piuttosto rinunciare davanti all’ostacolo piuttosto che domandarsi se questa non sia l’occasione per feconde innovazioni e una salutare rimessa in discussione.

 

La filosofia è ancora formativa?

Di fronte a questi fenomeni di debolezza, di sclerosi, di smarrimento, ci si può chiedere per quanto tempo ancora sarà in grado di giustificare e conservare il posto così particolare che occupa nell’insegnamento secondario francese. La questione che si pone è la seguente: a quali condizioni la filosofia al liceo può restare, o può diventare, una disciplina viva e formativa? Questa domanda non riguarda soltanto gli insegnanti di filosofia, ma tutti coloro che a diverso titolo si interessano ad essa, perché insegnano altre discipline, perché hanno responsabilità sindacali e politiche, perché sono studenti o genitori di studenti, o semplicemente perché cittadini a cui sta a cuore il futuro di questo insegnamento.

Da parte loro, i professori di filosofia della secondaria sono in una situazione straordinariamente carente: non esiste tra loro alcuna abitudine alla riflessione comune, alcuna struttura che consenta il dialogo didattico e pedagogico. Ciascuno è solo nelle sue classi, sia per far fronte agli insuccessi e alle necessità, sia per introdurre delle innovazioni e mantenerle nel tempo. La formazione iniziale dei professori di filosofia e la loro formazione continua restano quasi esclusivamente teoriche. Peggio: le esperienze e le ricerche didattiche e pedagogiche sono spesso accolte con sfiducia o disprezzo. Chi ne sottolinea la necessità, è spesso sospettato di mantenere una posizione tecnicista o formalista dell’insegnamento e farebbe perdere alla filosofia la sua anima: passa per un professore scadente perché è considerato un cattivo filosofo.

 

La “dottrina ufficiosa” e le sue conseguenze

Più in generale, da più di 30 anni pesa sull’insegnamento della filosofia una dottrina ufficiosa che impregna e orienta di fatto la professione. E’ ufficiosa perché non figura come tale in alcuna istituzione ufficiale né in alcun testo di programma. Ma è una dottrina perché è esplicita e coerente; è stata espressamente formulata in convegni, conferenze e in diversi articoli; è sempre presente in filigrana nei rapporti delle commissioni dei concorsi e nei rapporti d’ispezione.

Questa dottrina parte da un principio che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo: l’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio. E’ un principio che nessuno contesta. Ciò che è contestabile invece è la deformazione che la dottrina ufficiosa fa subire a questo principio: sono le norme e le indicazioni che essa pretende di trarne per l’insegnamento della filosofia.

Dal principio che un insegnamento della filosofia deve essere filosofico, crede di poterne dedurre altri due: 1) l’insegnamento della filosofia non dovrebbe rispondere che ad esigenze filosofiche, ad esclusione di ogni altra; e 2) sarebbe sufficiente soddisfare queste esigenze per essere ciò che deve essere. In altri termini, è a partire dalla sola considerazione dell’essenza della filosofia che dovrebbe essere regolato il suo insegnamento. Il sofisma è chiaro: che l’insegnamento della filosofia debba rispondere a delle esigenze filosofiche non implica affatto che esso debba, e neppure che possa, ignorare le altre, quelle che derivano dal fatto che è un insegnamento e che è rivolto, in un preciso contesto scolastico, a degli allievi determinati: esigenze pedagogiche e didattiche. Elaborare un programma che sia formativo per gli allievi di un determinato indirizzo, accordarsi sui criteri di valutazione, concepire un insegnamento per i licei professionali, e così via; nessuno di questi problemi può essere risolto senza articolare insieme esigenze filosofiche, pedagogiche e didattiche.

Questa articolazione è resa impossibile dalla dottrina ufficiosa: facendo della filosofia una potenza regolatrice che non deve rendere conto che a se stessa, porta a giudicare il suo insegnamento in rapporto ad esigenze astratte e ideali, mai in rapporto con gli effetti formativi su coloro ai quali è indirizzato. L’insegnante di filosofia non dovrebbe giustificare ciò che dice e fa se non in rapporto ad una idea della filosofia come pensiero che si fonda in permanenza su se stesso. Ora, questa idea appartiene ad una concezione della filosofia, ed è respinta dalle altre.

Soprattutto, una simile dottrina porta a ignorare o a disprezzare le esigenze pedagogiche tipiche della situazione scolastica: o si pretende che esse siano magicamente soddisfatte a condizione che lo siano anche quelle della filosofia; oppure le si rinvia al temperamento particolare e alla “piccola cucina” di ciascun insegnante. Questo porta a restare del tutto all’oscuro dei processi con cui gli allievi fanno propri a poco a poco le competenze e i saperi richiesti e sugli ostacoli che essi possono incontrare nell’apprendimento. Questo porta alla negazione pura e semplice del mestiere di insegnante e delle diverse pratiche attraverso cui ciascuno nelle sue classi, in modo intuitivo o metodico, si sforza di guidare il lavoro e il progresso dei suoi allievi.

Ma il mito dei una disciplina “ascolastica” si paga caro. Nel corso degli anni si è sviluppata una scolarizzazione rampante e superficiale della filosofia, una cattiva scolarizzazione: sono i titoli delle dissertazioni al bac e i manuali a determinare i programmi reali e sono i fascicoli sui metodi a codificare la dissertazione. E finché ci si accontenterà di dichiarare che i candidati al bac devono “assumersi il rischio di pensare” e che un buon compito è quello che “meraviglia chi corregge” non bisognerà meravigliarsi di vedere gli allievi cercare rassicurazioni, chiedere con insistenza ciò che ci si aspetta da loro e, in mancanza di risposta, cercare di cavarsela con l’aiuto di Internet. Sotto l’effetto regolativo di queste pratiche, i contenuti si normalizzano e si impoveriscono, le esigenze metodologiche saltano. Tutto accade come se la dottrina ufficiosa producesse esattamente ciò che pretende di evitare.

 

Coniugare filosofia e pedagogia

L’insegnamento della filosofia non verrà mai fuori dall’impasse in cui si è cacciato da solo senza un riesame collettivo di queste idee consolidate e di queste indicazioni che governano la professione da decenni, la ripiegano su se stessa e paralizzano la sua evoluzione. Non si tratta di sostituire una dottrina con un’altra, ma di togliere questi vincoli e di dar spazio a iniziative e opportunità. Si tratta di aprire uno spazio di dibattito e di riflessione in cui l’esperienza di ciascuno – che insegni nelle sezioni tecnologiche di un liceo di una zona a rischio o in un grande liceo parigino, di qualsiasi livello – sia egualmente riconosciuta; in cui la pluralità dei processi pedagogici non sia più considerata come una minaccia per il carattere filosofico dell’insegnamento, ma come espressione normale e stimolante di un insegnamento della filosofia vivo e formativo.

La ragione della nostra associazione è la creazione di un simile spazio, in condizioni di riconoscimento istituzionale (gli IREF: Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la philosophie, Istituti di Ricerca sull’Insegnamento della Filosofia). In tre anni di vita ci siamo sforzati, coi mezzi limitati di cui disponiamo, di tener vive queste esigenze: abbiamo organizzato due convegni (uno sulle pratiche di insegnamento, l’altro sulla dissertazione), abbiamo costituito dei gruppi di lavoro regionali, abbiamo partecipato ai dibattiti sulla riforma del programma di filosofia tentando di contribuire con suggestioni e argomenti. A partire da questi tre anni d’esperienza, di presa di coscienza, di confronti, questo Manifesto propone di aprire 10 cantieri per l’insegnamento della filosofia.

Questi cantieri dovranno contribuire a far vivere ed estendere la filosofia al liceo e all’università. Si richiamano naturalmente alla responsabilità dei professori. Sono loro a dover operare, nel rispetto della tradizione, il necessario rinnovamento del loro insegnamento: essi sono effettivamente i meglio piazzati e i meglio attrezzati per riflettere, sperimentare e discutere collettivamente sulle loro pratiche. Questi cantieri fanno sì che filosofia, pedagogia e didattica concorrano allo sviluppo dello spirito critico e dell’autonomia di giudizio degli allievi. Poiché sviluppano i mezzi per favorire l’appropriazione e l’esercizio del sapere e della riflessione filosofica, questi cantieri danno anche il loro contributo alla difficile e necessaria democratizzazione della filosofia e del suo insegnamento.

 

 

Dieci cantieri per l’insegnamento della filosofia

1° Cantiere
Riconoscere che la filosofia al liceo è una disciplina scolastica

L’identificazione pura e semplice dell’insegnamento della filosofia al liceo con la filosofia tout court impedisce di pensare la specificità della filosofia come disciplina scolastica.

La filosofia, infatti, esiste precedentemente a, e indipendentemente dal, suo insegnamento al liceo. Essa vive prima in altro: nelle ricerche, nei libri e nei dibattiti dei filosofi e – più o meno – in ciò che chiunque può dire o scrivere quando fa filosofia. Ciò che determina la sua specificità come disciplina scolastica è il suo valore formativo, sono le finalità che le sono assegnate in quanto concorre, con altre discipline, alla formazione intellettuale degli allievi dei licei.

Quindi, l’insegnamento non deve essere concepito a partire da una idea a priori di ciò che è la filosofia – visto che ne esistono molte – ma a partire dalla domanda: che cosa nell’eredità di 2500 anni di filosofia e nella vita filosofica contemporanea può meglio contribuire a permettere agli allievi di formare il loro spirito critico, di sviluppare le loro capacità di riflessione e la loro autonomia di giudizio, di costruirsi una cultura che sia uno strumento d’intelligibilità del mondo che ci circonda?

Da questa domanda deriva un’altra serie di domande sulle quali deve concentrarsi la riflessione collettiva dei professori di filosofia. Quali sono i contenuti di conoscenza e gli strumenti intellettuali che, come in tutte le altre discipline, gli allievi devono imparare a padroneggiare? Quali competenze devono acquisire? Che cosa si può richiedere ad un allievo della terminale di questa o quella sezione? In base a quali criteri il suo lavoro sarà valutato?

Questo non significa affatto ridurre la filosofia ad una preparazione affrettata o subordinarla al bac, né rinchiuderla in una prospettiva strettamente utilitarista e tecnicista, né eliminare il suo carattere di ricerca e di scoperta intellettuale. Significa al contrario restituirle, contro la “cattiva scolarizzazione dei manuali”, il suo senso pieno di disciplina scolastica.

Studiare la filosofia al liceo significa formarsi alla filosofia e attraverso la filosofia.

 

2° Cantiere
Riconoscere che imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere

Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai. E la sua “filosofia” resterà debole, ripetitiva, vittima di questa confusione dei generi. Questa identificazione, con le immagini di sé che l’accompagnano, resta tuttavia fortemente radicata negli spiriti.

La si riassume spesso nella formula: “il professore di filosofia è l’autore del suo corso“. Se con questo si intende che ciascun professore organizza come vuole e sotto la sua piena responsabilità il suo anno, il suo approccio alle nozioni e ai testi in questa o quella classe, secondo il proprio stile d’insegnamento, allora è una ovvietà, e non c’è bisogno di farne un dogma. Ma se questo vuol dire che un corso è un testo, un’opera che il professore scrive e recita (o che improvvisa senza averla scritta) davanti ai suoi allievi, o anche con loro, allora questa formula è errata e dannosa.

E’ errata, sul piano intellettuale: quando un filosofo è autore di un’opera, la pubblica, il che significa che si assume il rischio di sottoporla al giudizio dei suoi pari. Ora, gli allievi non sono nostri pari, e la loro critica, se ha luogo, non ci fa correre grandi rischi.

E’ dannosa, sul piano pedagogico: distrae dall’attività degli allievi e impedisce di porre la questione di ciò che fanno gli allievi quando ascoltano un simile testo. O, più esattamente, questa formula dà per acquisita la capacità di un ascolto attivo e critico della parola dell’insegnante: la capacità di appropriarsene per sé, di impadronirsi della dimensione problematica e di servirsene per mettere in opera il proprio pensiero, in una dissertazione per esempio. Dà dunque per acquisito ciò che, in realtà, è acquisito solo per pochi all’inizio della terminale, e deve al contrario essere appreso dalla grande maggioranza degli allievi di oggi.

Un’altra formula esprime lo stesso occultamento della dimensione dell’apprendimento: “la filosofia ha in sé la propria pedagogia“. Se con questa formula si vuol semplicemente dire che nella classe di filosofia si deve fare filosofia, nessuno potrà contestarla seriamente. Ma se la si intende nel senso che, per imparare a filosofare, sia sufficiente ascoltare o leggere di filosofia o che il professore può fare a meno di ogni riflessione sui mezzi da mettere in atto per guidare i propri allievi a fare filosofia, allora è ingannevole e dannosa.

Parlare di condizioni dell’apprendimento della filosofia piuttosto che parlare di filosofia è ancora troppo spesso percepito come una debolezza o un segno di insufficienza filosofica, il che ha l’effetto perverso di instillare un sentimento di colpevolezza o di fallimento negli insegnanti che, nella loro azione didattica, hanno bisogno di strumenti pedagogici, ben identificati: come risolvere le difficoltà di ordine pedagogico quando la sola discussione ammessa è la discussione filosofica?

Concepire l’insegnamento della filosofia come un apprendimento significa impegnarsi per affrontare questa difficoltà: come far entrare gli allievi nell’insieme dei percorsi intellettuali che costituiscono l’attività filosofica? Questo implica la riflessione sul modo in cui le conoscenze e le competenze filosofiche acquisite dall’insegnante nel corso dei suoi studi universitari – che sono, lo ricordiamo, essenzialmente conoscenze di storia della filosofia – possono essere messi al servizio di questo compito di formazione all’attività filosofica; implica che si chiariscano i fini cui mirare e si studino al meglio i mezzi (quali concetti, quali testi, quali percorsi, quali esercizi, e così via) per raggiungere questi fini con gli allievi; che si riorganizzi in modo permanente, in base all’esperienza e alla effettiva realtà delle classi, il rapporto tra competenze filosofiche e competenze pedagogiche.

Questo lavoro, certo, ciascuno più o meno lo svolge, anche se spesso in modo intuitivo; ma lo si svolgerà tanto meglio quanto più se ne prenderà chiara coscienza attraverso la condivisione delle esperienze e la riflessione comune. Questo implica che si riconosca e ci si riappropri del proprio mestiere di professore.

 

3° Cantiere
Farsi carico della diversificazione delle forme d’insegnamento della filosofia legate alla sua democratizzazione

Fino ad oggi il modello filosofico francese è stato costruito generalizzando l’insegnamento della classe di filosofia: le Istruzioni del 1925, testo di riferimento di una aristocrazia intellettuale, sono divenute, quasi alla virgola, la bibbia dell’insegnamento di massa. Ma in tre quarti di secolo la posizione di eccezione della filosofia, “coronamento degli studi umanistici”, è divenuta per l’effetto congiunto dell’estensione della filosofia e della massificazione dell’insegnamento una posizione di ripiegamento su se stessa.

L’introduzione della filosofia nelle sezioni tecnologiche ne è un esempio eclatante: si è scelto dapprima di trapiantare direttamente per i nuovi allievi, senza alcuna preoccupazione per il loro curricolo e la loro specificità, i programmi, la pedagogia e il sistema di valutazione della “classe di filosofia”. Si è poi fatto silenzio non soltanto sulle difficoltà pedagogiche e i fallimenti caratteristici di queste classi, che spesso vivono nell’abbandono e nella solitudine, ma anche sui tesori d’invenzione di cui i professori danno prova quotidianamente; li si considera semplici espedienti, inevitabili per un insegnamento alla deriva o per un insegnante in pericolo; nel migliore dei casi sono visti con simpatia, ma si rifiuta loro il riconoscimento e la possibilità di circolazione fra gli insegnanti.

Tuttavia i professori che si sono molto impegnati con gli allievi delle sezioni tecnologiche sono numerosi perché che il lavoro per andare a ciò che è filosoficamente essenziale e lo sforzo d’immaginazione pedagogica che questo insegnamento esige da loro sono salutari. Sono una fonte di rinnovamento particolarmente feconda i cui effetti benefici si fanno sentire su tutte le altre sezioni. Si può insegnare in queste sezioni senza avere la sensazione né di “svendita” della filosofia, né di decadenza, ma al contrario con la sensazione di esercitare pienamente il proprio mestiere.

Questo presuppone naturalmente che la diversificazione delle forme d’insegnamento della filosofia, legata necessariamente alla sua democratizzazione, sia riconosciuta a pieno titolo e che sia assunta collettivamente, non lasciata all’iniziativa individuale. Proporre un insegnamento diversificato non significa svilire gli allievi proponendo loro una filosofia a prezzi di sconto. Significa riconoscere che le capacità filosofiche proprie di tutti gli allievi non si esprimono in tutti nello stesso modo e non possono essere coltivate da tutte con le stesse modalità. Il modo in cui gli allievi possono formarsi alla filosofia non può essere indipendente né dal loro percorso scolastico precedente né dal loro bagaglio culturale, né dai loro rapporti con il linguaggio, con la scuola o con gli adulti, né dal loro progetto professionale e dal modo in cui, più in generale, guardano al loro avvenire.

Se l’insegnamento della filosofia è davvero rivolto a tutti, bisogna chiedersi: che cosa, nelle sue forme d’insegnamento, è inseparabile e costitutivo della disciplina? Che cosa deriva da una storia contingente, cioè dal ruolo istituzionale, dalla funzione sociale e dal pubblico che la disciplina ha potuto avere in questa o quell’epoca?

 

4° Cantiere
Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare

La filosofia fa appello a un ricco ventaglio di competenze: porre dei problemi; analizzare dei concetti; decentrare il proprio punto di vista e prendere le distanze dalle proprie opinioni; esercitare il proprio spirito critico riguardo alle idee ricevute e agli schemi di pensiero dominanti; passare dall’espressione immediata e spontanea della propria opinione allo sviluppo argomentato e sfumato di una posizione; praticare un va-e-vieni continuo tra l’astratto e il concreto, tra il particolare e l’universale; trarre le lezioni da un esempio e vedere le conseguenze che derivano da un principio; fare evolvere il contenuto e la formulazione delle proprie idee per tener conto delle obiezioni di cui si riconosce la legittimità; condurre una riflessione dopo l’esposizione di una questione fino alla formulazione di una risposta; e così via.

Nel caso della filosofia, queste competenze sono dei mezzi al servizio di un solo fine: il libero esercizio del pensiero, praticato da sé. Ma queste competenze hanno anche un valore in sé. Sono elementi indispensabili alla formazione degli allievi, qualunque sia il loro futuro scolastico e professionale e qualunque siano le attività in cui si impegneranno nella corso della loro esistenza futura.

Si dice spesso che la filosofia ha tanto più valore quanto più sfugge a preoccupazioni di utilità. E in un certo senso è vero: quando ci si forma alla filosofia, come quando ci si forma alla musica o alle matematiche, si ha di mira la filosofia per se stessa Ma nello stesso tempo ci si forma attraverso la filosofia, così come ci si forma attraverso la musica o le matematiche; e in questo senso la filosofia non deve vergognarsi d’essere utile, e deve anzi rivendicare la propria utilità.

L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno l’aumento della sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi e se non si interrogasse sulla sua efficacia nonché sui mezzi per valutarla.

 

5° Cantiere
Ridefinire gli elementi essenziali

Si sente spesso dire: “gli allievi hanno diritto a tutta la filosofia“. Se con questo s’intende che non vi è alcuna ragione di non proporre agli allievi delle sezioni letterarie di riflettere sulle scienze, a quelli delle sezioni scientifiche di interrogarsi sull’arte e a quelli delle sezioni tecnologiche di porsi questioni metafisiche, allora siamo tutti d’accordo. Ma pretendere che il programma di un anno di filosofia, qualunque sia la sezione e qualunque sia l’orario, debba avere una portata enciclopedica ed essere tanto illimitato nel suo principio quanto indeterminato nel suo contenuto – poiché, in potenza, tutta la filosofia deve esservi inclusa – è un’idea contestabile e, nella pratica, disastrosa.

E’ un’idea che, in linea di principio, si lega ad una concezione iniziatica dell’insegnamento: bisognerebbe far operare all’allievo una sorta di conversione intellettuale mediante cui accedere in qualche modo a una nuova maniera di considerare ogni cosa e di affrontare ogni problema. E’ soltanto una dottrina pedagogica e nulla le dà il diritto di erigersi a norma unica. Ma soprattutto essa ha, nel contesto scolastico, effetti particolarmente nefasti: se tutta la filosofia è in programma, niente è in programma e niente può essere richiesto. Rifiutarsi quindi di indicare agli allievi su che cosa devono concentrare i loro sforzi, quali problemi devono comprendere, quali conoscenze padroneggiare e quali competenze acquisire, non permette loro di impegnarsi in un autentico lavoro di formazione di sé. Significa inchiodarli alla convinzione che “si è portati per la filosofia” oppure no e, all’esame, significa favorire chi è capace, ma non sa, a detrimento di chi ha lavorato e appreso. Inoltre rifiutando di delimitare e definire gli elementi essenziali, la disciplina perde la propria consistenza e la filosofia si trasforma a poco a poco in una “materia per chi è interessato”.

Si dirà che elemento essenziale in filosofia è ciò che primo, ciò da cui tutto deriva. Ma questo significa confondere due sensi della parola “elementi”: gli elementi primi di un sistema (filosofico) e i primi passi di un cammino (pedagogico). La responsabilità collettiva degli insegnanti di filosofia è, come per ogni altra disciplina, di selezionare e prendere ciò che, nei percorsi, nei problemi, nei concetti e nelle più importanti dottrine della tradizione, può avere un valore formativo per gli allievi che iniziano e che, nella stragrande maggioranza, non faranno più filosofia in seguito. Rifiutarsi di operare una tale selezione, mettere di colpo gli allievi davanti a “tutta la filosofia”, significa in realtà rinunciarvi del tutto. Ben inteso, la scelta non è semplice. Non può essere fatta se non a partire dall’esperienza e dalla riflessione collettiva dei professori.

Così, fissare delle esigenze limitate e ragionevoli non significa né rinunciare né abbassare il livello. La cosa peggiore è avere esigenze irragionevoli che si è incapaci di mantenere e far rispettare. Perché si perde così ogni criterio per giudicare dei progressi o dei fallimenti. C’è dunque una ragione per gli inestricabili problemi di valutazione che si incontrano al bac. Meglio far meno, ma meglio.

 

6° Cantiere
Coniugare apprendimento filosofico e saperi

Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare. Certo, con questa formula si vuole sottolineare che l’insegnamento della filosofia al liceo non può consistere nello studiare le dottrine filosofiche per se stesse, la storia della filosofia o quella delle idee. Ma, su questo principio, l’accordo dei professori di filosofia è unanime. In compenso, con l’irrigidire spesso fino alla caricatura le legittime distinzioni tra pensare e conoscere, tra la filosofia e i saperi positivi, o tra i movimenti di un pensiero vivo e le idee dei filosofi, si finisce con l’impedire ogni seria riflessione sul modo di articolare queste distinzioni nell’insegnamento.

Per esempio: se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?

Per esempio: la filosofia si è sempre nutrita di quel che filosofia non è, e non sarebbe possibile fare filosofia sulle scienze, l’arte o la religione senza disporre di elementi di conoscenza solidi e precisi su certi episodi fondamentali della storia delle scienze, su certe correnti artistiche ed estetiche, su certi testi religiosi. Non si può eludere la domanda: poiché queste conoscenze indispensabili non vengono attualmente fornite al liceo, quale posto deve dar loro l’insegnamento della filosofia se vuol essere pertinente?

Per esempio: assimilare un’idea di questo o quel grande filosofo ed esporla per proprio conto, è una competenza filosofica fondamentale. L’allievo che ha compreso gli argomenti che giustificano l’idea di “contratto sociale” o di “imperativo categorico” e che è capace di esporli intelligentemente, pensa tanto quanto chi pone un problema o analizza un concetto. Si è finito col fare della questione dei corsi uno spauracchio, come se non vi fosse differenza tra il recitare delle formule e l’appropriarsi delle idee. Non si può eludere la domanda: come favorire e valorizzare il lavoro con cui l’allievo apprende a interiorizzare e far sue le idee che non ha inventato?

 

7° Cantiere
Coniugare l’apprendimento filosofico e l’apprendimento di nuovi usi della lingua

Formarsi alla filosofia significa apprendere a fare un uso filosofico della lingua orale e scritta. Tutti sappiamo che la maggior parte degli allievi hanno enormi difficoltà a scrivere o ad articolare oralmente, un discorso un minimo ben costruito, logico e coerente. Un po’ troppo facilmente queste difficoltà sono imputate a limiti del pensiero, o a ciò che di solito chiamiamo “cattivo controllo della lingua”. Ciò che accade è piuttosto innanzitutto il fatto che gli allievi devono per la prima volta confrontarsi con un uso particolare della lingua che consiste nel riflettere sul senso delle parole e delle domande, sullo statuto delle proposizioni e sulla logica dei discorsi, e devono fare di questa riflessione l’oggetto stesso del discorso.

Ora, è proprio quest’uso particolare della lingua che essi devono apprendere. A questo riguardo, l’idea secondo cui “il modello della dissertazione è la lezione del professore” si rivela drammaticamente insufficiente, proprio perché glissa sui veri problemi dell’apprendimento. E peggio ancora è l’idea che “per fare una dissertazione è sufficiente pensare“.

Fare di questo apprendimento un obiettivo di riflessione significa ridurre la filosofia ad una “retorica argomentativa” o a un “dibattito di opinioni”? Questa obiezione fa riemergere la tradizionale prevenzione dei filosofi verso la retorica, e questa prevenzione non è infondata: nessuno di noi vuol trasformare i propri allievi in apprendisti sofisti che mettono in opera in modo meccanico degli artifici del linguaggio. Ma noi non diciamo questo. Gli allievi, nella loro grande maggioranza, sono ben lontani dal correre il rischio di un eccesso di retorica. Il problema è piuttosto dato dal fatto che mancano generalmente degli strumenti della retorica più elementare, necessaria e legittima per elaborare e sviluppare il loro pensiero. Per esempio, non sanno come fare per porre a confronto un ragionamento e la sua confutazione, per presentare un’obiezione e rispondervi, per condurre un’analisi di nozioni o di problemi; non sanno né come scrivere questo, né come leggerlo in un testo, né come dirlo e comprenderlo in una discussione orale. I professori devono fare in modo che apprendano a far questo, che ne scoprano le norme, che ne acquistino la competenza.

Ancora una volta la domanda non può essere elusa: come coniugare l’apprendimento del pensiero con quello degli strumenti linguistici e discorsivi attraverso cui questo pensiero, non soltanto si esprime, ma soprattutto si elabora, si forma, si consolida e si affina?

 

8° Cantiere
Insegnare la filosofia viva

Apprendere a filosofare significa confrontarsi allo stesso tempo con una tradizione e con la filosofia viva.

L’assenza di un vero programma e il peso dei titoli del bac su una disciplina che non esiste se non nell’anno dell’esame hanno prodotto a poco a poco un restringimento degli orizzonti dell’insegnamento filosofico. Visto che si ignora ciò di cui trattano i colleghi, si fa ciò che si crede che essi facciano (ciò che compare nei manuali) e si ripiega non solo sugli autori canonici, ma su un ristretto numero di testi e di dottrine che hanno finito col diventare canonici. Naturalmente si ha il diritto di essere originali, ma è a rischio e pericolo degli allievi: anche se mediocremente dotato, il correttore riconoscerà sempre il Mito della Caverna; un’idea di Vico, di Carnap, o anche di Locke, rischia di non essere né riconosciuta né compresa e finire con un punto interrogativo, o con un deciso segno rosso. In una trentina d’anni il programma del 1973 è stato a poco a poco scremato da tutte le innovazioni: le questioni a scelta sono a poco a poco sparite; si propongono sempre meno “la formazione di un concetto scientifico” (poco utile al bac, in cui i titoli di filosofia della scienza sono diventati sempre più generali) e “la costituzione di una scienza dell’uomo” (il disprezzo per le scienze umane protrattosi per 30 anni ha finito col produrre i suoi effetti). L’insegnamento di filosofia tende a rinchiudersi in una “filosofia filosofante” e a riprendere indefinitamente qualche episodio di storia della filosofia.

I programmi della prima metà del XX secolo ci appaiono oggi senza dubbio datati; ma vi si trovava un’eco dei dibattiti filosofici che avevano luogo allora in Francia; i programmi degli anni ‘60-’70 hanno integrato la presenza nel pensiero contemporaneo di Marx, di Nietzsche, di Freud, della tradizione epistemologica e della storia della scienza francese. Ma oggi la maggior parte dei dibattiti contemporanei particolarmente intensi in filosofia del linguaggio, in filosofia dello spirito e in filosofia politica, non hanno quasi nessuna risonanza nella filosofia che si insegna al liceo.

Si dirà che l’insegnamento della filosofia non deve seguire le mode e deve tenersi lontano dall’attualità. Senza dubbio. Ma si può parlare del rapporto anima/corpo nelle Meditazioni o accostarsi al Contratto sociale senza mai chiedersi cosa Cartesio e Rousseau hanno da dirci oggi, per esempio sulle questioni sollevate dai pensatori cognitivisti o contrattualisti contemporanei? Non si può intrattenere una viva relazione con i classici se non li si legge in relazione alle nostre domande, che sono in gran parte quelle della filosofia di oggi. Gli allievi leggono giornali, riviste, guardano in televisione trasmissioni scientifiche o dibattiti di idee, e pongono domande. Il professore di filosofia deve senza dubbio parlare di Platone, ma Platone non può essere sufficiente per soddisfare la loro curiosità e dar loro tutti i mezzi per orientarsi nel pensiero di oggi.

Distinguere nella ricerca contemporanea ciò che non soltanto è importante, ma ciò che può avere valore formativo ed essere utile per gli allievi, questa dovrebbe essere una preoccupazione collettiva e costante della nostra professione. .

 

9° Cantiere
Fare uscire l’insegnamento della filosofia dal suo isolamento nella classe terminale

L’insegnamento della filosofia nella classe terminale soffoca; l’avvenire dell’insegnamento della filosofia passa per la sua estensione a monte e a valle.

Per ragioni puramente storiche, l’insegnamento della filosofia occupa, nell’istituzione scolastica francese, una posizione d’eccezione: collocato nella classe terminale, e in questo solo anno, affidato ad un insegnante che resterà per sempre, nella maggior parte dei casi, l’unico professore di filosofia incontrato da ciascuno nella propria vita, è sempre concepito, anche se non si osa quasi più usare questa espressione, come il “coronamento” degli studi secondari. Ora, questa posizione è ben lontana dall’avere gli effetti benefici che si suppone. Invece che essere un anno importante ed effettivamente formativo, è in realtà più spesso una parentesi nel curricolo degli allievi, parentesi tanto velocemente chiusa quanto velocemente aperta: ci si ricorda di un professore carismatico e di un compito andato male al bac, ma molto spesso non resta della terminale né una cultura filosofica né effettive competenze. I professori di filosofia dei gradi superiori lo sanno bene, e non presuppongono spesso alcuna competenza precisa nei loro studenti delle classi preparatorie e dell’università.

In realtà, l’insegnamento della filosofia soffre ad essere confinato nella terminale. Non si può avere una vera formazione alla filosofia se non si riconosce che, come tutte le altre discipline, il suo apprendimento richiede tempo e deve essere condotto secondo una progressione.

L’avvenire dell’insegnamento della filosofia passa per la sua estensione al di fuori della terminale. Estensione a monte, innanzitutto, cioè almeno a partire dalla classe prima: gli allievi lo chiedono spesso, e questa richiesta riflette l’inadeguatezza del modello attuale di una “nascita improvvisa” e il bisogno che gli allievi sentono di avere tempo davanti per formarsi in modo efficace. Estensione a valle, cioè in tutte le branche degli studi dopo il bac: l’insegnamento nella terminale acquisterà così un senso nuovo divenendo la base di una formazione che continuerà in maniera diversificata secondo gli studi prescelti.

Progettare e mettere in atto le modalità di questa estensione è senza dubbio uno dei cantieri più ambiziosi e più nuovi per l’insegnamento della filosofia.

 

10° Cantiere
Rimodellare la formazione iniziale e continua dei professori di filosofia così come i concorsi a cattedre

Le condizioni e le modalità della formazione degli insegnanti di filosofia non appaiono più oggi soddisfacenti. Non si può qui se non indicare alcuni nodi problematici.

  • I corsi universitari, dal 1° anno del DEUG alla maîtrise, sono raramente unitari. Gli studenti si vedono proporre anno dopo anno contenuti d’insegnamento spesso disparati, difficili da legare tra loro e da tenere insieme. Alla fine dei 4 anni non è raro che essi non abbiano mai avuto dei corsi su autori, temi o correnti, fondamentali. E’ questo il caso anche degli studenti che sono passati per le classi preparatorie.
  • La preparazione ai concorsi è di fatto soprattutto assicurata dalle scuole per la formazione degli insegnanti (khâgnes), il solo luogo in cui gli studenti vengono regolarmente preparati per affrontare la dissertazione e la lezione che sono attualmente alla base delle prove dei concorsi. L’università non ha altrettanti mezzi per farlo. C’è qui una ineguaglianza grave e una ancora più grave disfunzione (che certamente non hanno nulla a che vedere con la filosofia in quanto tale).
  • I concorsi, e in particolare l’agrégation, sono concepiti e vissuti come dei “diplomi di eccellenza filosofica” e dei mezzi per continuare ad “essere filosofi” piuttosto che come la via di accesso al mestiere di professore di filosofia. Le prove valorizzano allo stesso tempo il possesso di conoscenze molto precise, addirittura specializzate, della storia della filosofia (allo scritto dell’agrégation) e la capacità inevitabilmente retorica di trattare di tutte le questioni possibili (all’orale dell’agrégation). Passare un anno intero a studiare autori come Fichte o Plotino (che non sono nel programma della terminale) e vedersi proporre all’orale dell’agrégation titoli come “La noncuranza” o “Che cos’è un paesaggio?”, è davvero il modo migliore per prepararsi a insegnare filosofia?
  • I giovani insegnanti sono per la maggior parte delusi dell’anno che passano nello stage e all’IUFM. Appare con chiarezza che il confronto tra l’esperienza fatta nella loro classe e la decisiva riflessione pedagogica e didattica non si fa affatto, o molto male, o poco.
  • La formazione continua degli insegnanti di filosofia, poi, è quasi esclusivamente erudita e non concede, per così dire, alcuno spazio al confronto delle pratiche, alla riflessione sulle difficoltà pedagogiche e alla messa in circolazione delle innovazioni.

Senza una conoscenza seria e non mitologica della tradizione dell’insegnamento filosofico, è difficile farla vivere e progredire, e arricchire utilmente il dibattito tra i professori di filosofia. Appare necessario integrare la formazione dei nuovi professori con un insegnamento di storia della disciplina, in Francia e altrove.

E’ un insieme di problemi seri e delicati che non possono essere trattati in poche righe né possono essere risolti con qualche rapida misura. E’ un cantiere di vasta portata che presuppone una analisi lucida, approfondita e non manichea della situazione e che condurrà senza dubbio a un certo numero di riflessioni critiche. E’ compito di tutta la professione: dei professori della terminale e delle classi preparatorie, degli universitari e dei formatori dell’IUFM, degli ispettori.

 

(Trad. it. di M. Trombino; il testo originale è nel sito dell’Acireph: www.acireph.asso.fr )

[Tratto da: http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/artdida1/acireph-1.htm%5D


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